Corte Costituzionale, perché manca ancora il presidente che deve subentrare a Sciarra

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1. La Corte costituzionale «è composta di 15 giudici»: così dispone la Costituzione. Alla scadenza del mandato, il giudice cessa dalla carica e dall’esercizio delle funzioni e, perciò, va sostituito «entro un mese»: così dispone la legge.

Evidentemente, per il Parlamento, Costituzione e legge non sono vincolanti. Nel disinteresse generale, è da cinque mesi che a Palazzo della Consulta manca un giudice, non avendo le Camere riunite ancora provveduto a eleggere chi subentrerà all’ex Presidente Silvana Sciarra, giunta al termine del suo mandato il 12 novembre 2023.

Andati a vuoto i primi due scrutini (l’8 e il 29 novembre scorsi), il Parlamento in seduta comune si riunirà il prossimo 23 aprile: sarà fumata nera (scommettiamo?). Questa vacatio non è un’innocua sgrammaticatura costituzionale. Nell’immediato, ha sottostimate ricadute negative sulle dinamiche interne alla Consulta. In prospettiva, rivela un’allarmante concezione proprietaria dei posti presso la Corte costituzionale.

2. Ogni giorno che passa – e ne sono già trascorsi più di centocinquanta – l’inerzia delle Camere dilata una violazione costituzionale già in atto. Altera, squilibrandolo, l’assetto del collegio che la Costituzione ha voluto paritario tra le sue differenti componenti: 5 giudici di elezione parlamentare, 5 di nomina presidenziale, 5 eletti dalle giurisdizioni superiori.

Sul piano funzionale, l’assenza (anche solo) di un giudice non è a costo zero. Enfatizza, esponendolo oltremisura, il ruolo del Presidente della Corte il cui voto – in caso di parità – determina la decisione del collegio: evenienza più probabile, se i giudici sono 14.

Incide negativamente sulla risposta di giustizia costituzionale di una Corte privata, per mesi, dell’apporto di un suo membro. È questo il sottotesto dell’invito, garbato ma urgente, formulato dal Presidente Barbera, «affinché le Camere, ormai esaurite le prime due votazioni, provvedano nel più breve tempo a questo adempimento» (così nella sua conferenza stampa del 18 marzo scorso).

3. Ghiotta e suadente, serpeggia invece in Parlamento la tentazione di tergiversare per ulteriori mesi, fino al 20 dicembre 2024, quando terminerà il mandato di altri tre giudici costituzionali (Augusto Barbera, Franco Modugno, Giulio Prosperetti), tutti di elezione parlamentare.

Questa logica “a pacchetto” non è nuova. Fu inaugurata il 16 dicembre 2015 dagli schieramenti parlamentari di allora (centro-sinistra, M5S, centro-destra), eleggendo contestualmente la terna. Nel replicarla, l’attuale maggioranza di governo insegue il non celato obiettivo di attrarre a sé tutte (o quasi) le quattro candidature.

Abaco alla mano, infatti, ai suoi 350 parlamentari bastano solo altri 10 voti per raggiungere il quorum richiesto dopo il terzo scrutinio (360, pari ai tre quinti dei componenti l’assemblea). A tal fine sarà sufficiente, al momento del voto, il non disinteressato soccorso di una decina di deputati e senatori “volenterosi”.

Se tale strategia avrà successo, non è dato sapere. Una cosa è certa: la sua logica “a pacchetto” è in frode alla Costituzione. E come tale andrebbe denunciata e respinta. Vediamo perché.

4. La logica costituzionale che governa l’elezione dei 5 giudici di estrazione parlamentare è cristallina. Il collegio elettorale è un organo (il Parlamento in seduta comune) che, diversamente dalle sedi della rappresentanza politica (Camera e Senato), non può condizionare il soggetto eletto.

Gli elevati quorum richiesti precludono alla maggioranza parlamentare del momento di imporre il “suo” candidato. Lo scrutinio è segreto ad impedire una designazione dall’esterno, assicurando il formarsi in Parlamento di un consenso non solo formale.

A evitarne la politicizzazione, le candidature non si ufficializzano né si discutono in aula. Né la Costituzione prevede per la Consulta una composizione che rispecchi la proporzione dei vari gruppi parlamentari.

Il senso complessivo è chiaro: nessuna forza politica è proprietaria o comproprietaria della carica di giudice costituzionale. Collocarne la scelta entro pratiche di spoil system è quanto di più lontano ci sia dalla trama costituzionale.

A innervare tale trama, semmai, è il principio di leale collaborazione del Parlamento verso la Corte costituzionale. Solo all’interno di questa logica fiduciaria si giustifica l’esclusione del regime di prorogatio per il giudice cessato dalla carica e il termine di un solo mese per la sua sostituzione: è l’inderogabilità dell’adempimento costituzionale a imporre alle Camere riunite di provvedere tempestivamente.

5. Su tutto questo, la logica “a pacchetto” passa sopra come uno schiacciasassi. Perché svuota l’autentica ratio delle maggioranze qualificate – richieste a garanzia di singole scelte condivise – trasformandole in un ostacolo da superare. Ieri attraverso una spartizione, dove ciascuno ha eletto il proprio giudice. Domani, magari, con il colpo di mano di una scelta tutta interna all’area governativa.

In questo modo un adempimento costituzionale, impellente e non derogabile, viene subordinato alle alchimie delle forze politiche. Costi quel che costi. Infatti, la logica “a pacchetto” mette in conto – incautamente – un arco temporale futuro, ma certo, in cui il collegio sarà composto solo da 11 giudici effettivi: cifra borderline, sotto la quale l’organo entrerebbe in arresto cardiaco, non essendo più legittimato – per legge – a svolgere le proprie funzioni.

In ogni caso, si costringerà la Consulta, comunque e anticipatamente, a lavorare a ranghi ridottissimi. I tre giudici prossimi alla scadenza, infatti, non potranno partecipare a udienze e camere di consiglio riguardanti cause che saranno decise dopo il termine del loro mandato.

6. Sorprende, perciò, l’indifferenza istituzionale che circonda l’ingiustificato ritardo parlamentare. È vero che si tratta di un remake. Vacanze anche più lunghe si sono registrare in passato per sostituire i giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi), Caianiello (quasi venti mesi), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi). Tutti di estrazione parlamentare.

Allora, però, non si registrò una generalizzata acquiescenza. I Presidenti della Repubblica Segni (16 settembre 1963), Cossiga (7 novembre 1991), Ciampi (26 febbraio 2002) esercitarono la prerogativa del messaggio alle Camere, pur di richiamarle al tempestivo reintegro del plenum della Corte; Giorgio Napolitano lo fece con un apposito comunicato (3 ottobre 2008).

In passato (era il 9 ottobre 2008), in appoggio a un drammatico sciopero della sete di Marco Pannella, non mancò neppure un appello firmato da 506 parlamentari (più della maggioranza assoluta del collegio elettorale) che chiedeva la convocazione del Parlamento in seduta comune, «fino al formarsi delle decisioni necessarie».

7. Come tutti i reati in flagranza, l’attuale e persistente violazione della Costituzione va interrotta, senza indugiare oltre. Come? La soluzione è suggerita da Giuseppe Guarino, in un saggio del 1954: è sul Presidente della Camera, in qualità di Presidente del collegio elettorale, che grava l’obbligo di «convocare il Parlamento riunito e di far ripetere ininterrottamente gli scrutini senza sospenderli e senza porre termine alla seduta fino a quando non si sia prodotta la maggioranza richiesta».

Un “conclave”, dunque. la sua dinamica costringerebbe, gioco forza, a un accordo parlamentare. Il suo prolungarsi aprirebbe spazi per un’autonoma determinazione di deputati e senatori (com’è accaduto nell’ultima elezione per il Quirinale).

Il suo esito positivo verrebbe agevolato dall’individuazione di una rosa di candidature di provata esperienza, professionalità e indipendenza, in luogo di un unico nominativo (deciso dove? da chi? sulla base di quali criteri?).

È forse necessario ricordare, al Presidente Fontana, che «non è la Costituzione che deve piegarsi alla volontà contingente dei gruppi politici, ma sono questi che devono sottostare al sovrano dettato della Carta fondamentale»?

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