La Nutella compie 60 anni: la felicità nascosta in dispensa

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La Nutella sta al piacere, al desiderio, al godimento come gli spinaci stanno a Braccio di Ferro…. Così che la Nutella compie ora sessant’anni. Di piacere, appunto. Colmo della soddisfazione quasi onanistica; il claim pubblicitario che pronuncia il bisogno irrefrenabile “di fare l’amore con il sapore”, sia detto con franchezza oggettiva, in fondo in fondo alla gola appartiene soltanto al suo totemico barattolo, livrea bianca, nera e rossa, ogni altro cibo destinato all’apologia della merenda sia ritenuto soltanto un succedaneo, se non un impostore delle vere, amate, preferenze.

“La” Nutella è “cibo” da raggiungere d’improvviso, la mano a cercarne il barattolo nella dispensa nazionale, Perché la Nutella trascende il gesto stesso del bisogno di nutrirsi, è molto di più: un atto d’amore beatamente egoistico verso se stessi.

Di più, la Nutella trascende la Nutella stessa. Se la Coca-Cola è bevanda dal simbolico perfino politico (“Per ogni Coca-Cola che tu bevi è un proiettile all’America che dai…”, così il cantastorie siciliano Franco Trincale intonava nei giorni della guerra del Vietnam infine vittorioso sul nemico yankee), Nutella è consustanziale al piacere stesso, una forma continua di orgasmo irrinunciabile che va oltre l’eros solitamente attribuito a leccornie e zenit dolciari, se così può dirsi, alle ordinarie considerazioni che l’esperto di cibo attribuisce al concetto e alla pratica del Gusto.

La sua fortuna è anche nel nome di battesimo domestico e insieme industriale, Nutella. Inizialmente, lo diciamo per filologia onomastica, avrebbe potuto chiamarsi “Nutosa”, non sarebbe stata però la stessa cosa, non avrebbe racchiuso il medesimo sentimento “familiare”, intimo, quasi gozzaniano; la desinenza in “ella” le ha consegnato infatti un plusvalore lessicale che attiene a un’eterna infanzia: del piacere, dell’orgasmo che dal cosmodromo delle papille raggiunge una parte segreta del cervello.

Se Homer Simpson è afflitto dalla presenza di un pennarello conficcato nell’encefalo, il “sentimento”, al contrario, l’immagine dei recettori mentali che mostrano il primo assaggio di Nutella raccontano l’attesa di riceverne una cucchiaiata e un’altra e un’altra ancora.

Quasi un’istigazione alla bulimia, in questo caso, presumibilmente, dal volto umano. Talvolta consolatorio, come nel caso del regista caro alla bella gente “di sinistra” che l’ha trasfigurata in placebo per i suoi tormenti edipici, forse anche sessuali, certamente politici: l’enorme bicchiere sul tavolo come un moloch da aggredire con la cucchiara liberatoria dopo l’ennesima sconfitta della sinistra e per le altre ancora che seguiranno.

In questo senso, Nutella è assimilabile, in nome delle dipendenze, quasi a una droga, al bisogno inarrestabile, stupefacente, l’avere ragione del suo intero barattolo. Nutella racconta perfino una forma solipsistica che si accompagna al cerimioniale ansioso del cibo, della autogratificazioni: tu e la Nutella.

Se può valere un ricordo personale, chi scrive non ha mai perdonato a un’amica, Maria Grazia, d’essersi comportata in modo esclusivo con il già menzionato barattolo, l’infame fanciulla lo teneva, avida, tutto per sé, all’altro, all’amico in visita, appena un assaggio. Giuro di odiarla ancora adesso.

Il calendario della sua venuta al mondo indica la data del 20 aprile 1964, pochi mesi prima che Togliatti lasciasse orfano il popolo comunista in bianco e nero, ancora lontani i giorni finalmente in quadricromia di Berlinguer.

Si racconta che quel giorno, lassù ad Alba, nelle Langhe, piovesse. Si narra ancora che il suo inventore, Michele Ferrero, il “titolare” dell’impresa omonima, prese a materializzarne il vasetto rigorosamente di vetro che, per sua stessa natura non meno “letteraria”, può essere accostato nel cielo del Piemonte contadino a Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, e forse perfino al pittore, farmacista e partigiano Pinot Gallizio che, maestro del situazionismo, immaginò la “pittura industriale”, ossia da vendere a metraggio.

La sostanza della Nutella solo impropriamente può essere ritenuta una “crema”, più naturalmente, più chimicamente, risponde magicamente all’effetto che fa, concorrenziale quasi all’acido lisergico.

La Nutella racconta ciò che in psicanalisi è riferito al “principio del piacere”, quanto invece al “principio di realtà”, decisamente antagonistico se accostato alla prima occorrenza, sia noto che la Nutella, così leggiamo, “vale oggi 14 miliardi di euro di fatturato con un balzo del 10,4 per cento nell’ultimo bilancio”.

Gli operai addetti alla sua produzione lo scorso ottobre hanno ricevuto 2.450 euro in più in busta paga come premio di produzione. “Una delizia da spalmare sul pane”, così nelle réclame presenti un tempo nei rotocalchi popolari: l’intera famiglia – papà, mamma e piccino – religiosamente a compiere il rito della merenda, unico altro esempio unificante pubblicitario, lo stesso nucleo intento a gareggiare con la pista “Policar”, l’autodromo di Monza idealmente trasferito sul pavimento del salotto di casa, almeno per chi ne ha ancora memoria. Con la Nutella come conclusione degna del grand prix domestico. Auguri di gola!

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