Rinascita Scott, l’Appello conferma: nel Vibonese c’è una ‘ndrangheta unitaria

Rinascita Scott, l’Appello conferma: nel Vibonese c’è una ‘ndrangheta unitaria

Il Quotidiano del Sud
Rinascita Scott, l’Appello conferma: nel Vibonese c’è una ‘ndrangheta unitaria

Nelle motivazioni della sentenza di Appello del troncone in abbreviato di Rinascita Scott i giudici confermano che nel Vibonese la ‘ndrangheta opera unitaria

LAMEZIA TERME – Sono state depositate le 1598 pagine di motivazioni della sentenza d’appello del processo “Rinascita-Scott” emessa il 30 ottobre 2023 che aveva portato alla conferma di 67 condanne, certificando la tenuta dell’impianto accusatorio del processo in questo filone in abbreviato. Rispetto al primo grado gli imputati sono 74. Qualche lieve riforma della pena inflitta a suo tempo dal gup distrettuale Claudio Paris, e 7 assoluzioni (quattro confermate e tre nuove).

La Procura distrettuale antimafia aveva appellato quattro delle 20 assoluzioni, vale a dire quelle che avevano riguardato Emanuela Chilla, Antonio Di Virgilio, Maurizio Fiumara e Vincenzo Renda. Per tutti gli altri assolti invece il verdetto assolutorio era divenuto definitivo.

La Corte presieduta dal giudice Caterina Capitò (a latere Antonio Giglio e Carlo Fontanazza) aveva dichiarato la nullità della sentenza del gup emessa nei confronti di Francesco Gasparro per tutti i reati. Stessa decisione anche per alcuni reati per Pasquale Gallone e Domenico Macrì riformandone le pene: il primo, considerato il braccio destro del boss Luigi Mancuso, era passato da 20 anni di reclusione a 19 anni e otto mesi, il secondo, ritenuto a capo dell’ala militare della cosca Pardea-Ranisi, da 20 anni a 19 anni e 10 mesi.  Assolti, invece, Michele Fiorillo detto “Zarrillo”, Carmela Cariello e Pasquale Tavella, rispettivamente condannati nella prima sentenza a 5 anni, 4 anni e 6 mesi e un anno e 4 mesi. Confermate poi le quattro assoluzioni del primo grado di giudizio.

Per quanto riguarda i reati, l’accusa ha contestato a vario titolo associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, tentato omicidio, estorsione, detenzione illegale di armi ed esplosivo, ricettazione, traffico di influenze illecite, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio aggravato, traffico di droga.

La ‘ndrangheta unitaria.  Anche il verdetto di appello ha riconosciuto l’esistenza della cosiddetta unitarietà della ’ndrangheta. Al riguardo vengono menzionate non solo le varie sentenze nel corso del tempo ma le dichiarazioni in tal senso di numerosi collaboratori di giustizia ritenute attendibili anche dalla Corte la quale spiega che tali ricostruzioni appaiono “pienamente compatibili con le contrarie deduzioni degli appellanti, che evidenziano come in alcuni momenti vi siano state criticità tra le varie articolazioni territoriali ed anche guerre aperte per il controllo del territorio o ancora, distacchi di gruppi rispetto alla cosca madre”. Per i giudici, infatti, “l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta che alcuni gruppi criminali sempre qualificabili ai sensi dell’art. 416 bis c.p., presenti in alcuni territori, fatichino ad avere maggiore riconoscimento formale. Inoltre proprio il riconoscimento formale di un gruppo organizzato, da parte delle articolazioni deputate a ciò, non è indispensabile per l’esistenza del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., operando i due piani (giuridico e, per così dire, sociologico) su binari indipendenti”.

La Locale di Limbadi. Ampio spazio viene dedicato all’esistenza della cosca egemone dei Mancuso, accertata in via definitiva nel processo “Dinasty” per il periodo fino all’anno 2003, ma all’attualità per come contestato in questa sede. Esistenza che anche in appello è stata riconosciuta dalla Corte la quale ha riportato numerosi riferimenti, anche e soprattutto sul ruolo apicale di Luigi Mancuso (la cui posizione era stata stralciata). La sua figura era già emersa nei processi “Tirreno” e “Mafia delle tre Province”, in cui sono stati esaminati i rapporti tra la ’ndrangheta reggina e quella del vibonese. In “Tirreno” Mancuso e il nipote Peppe ’mbrogghja figuravano promotori e dirigenti della consorteria; nella sentenza “Dinasty” si dà atto di come il clan Mancuso “si regga su legami familiari, che rappresentano l’elemento di coesione principale, sia all’interno della cosca (e nonostante gli accertati contrasti tra frange della stessa famiglia), sia all’esterno della stessa. La forza del sodalizio e il suo ruolo egemonico nella ‘ndrangheta vibonese emergono anche dalla sentenza emessa nel processo “Rima”, che ha accertato per la prima volta l’esistenza della cosca dei Fiarè/Razionale di San Gregorio d’Ippona, stretta alleata dei Mancuso”. Inoltre, anche il collaboratore storico Michele Iannello annoverava già nel 2002 Luigi Mancuso tra i tre perni principali dell’associazione (con Antonio e Peppe Mancuso). Andando all’attualità, viene evidenziato dalla Corte come, rispetto a quanto “pacificamente emerge dai provvedimenti definitivi di accertamento dell’esistenza della cosca Mancuso e della sua conclamata supremazia sulle altre cosche del territorio, poco rileva l’esattezza o meno dell’analisi in ordine alla sua collocazione all’interno della cosiddetta ‘ndrangheta unitaria, e in ordine alla portata stessa di tale nozione”. Inoltre, sull’attuale operatività della cosca, “in perfetta continuità con il segmento già accertato nel processo “Dinasty”, e sul ruolo di Luigi Mancuso, valgono le considerazioni espresse nella sentenza impugnata e valgono soprattutto le vastissime acquisizioni probatorie relative ai reati-fine che saranno di seguito esaminati”.

La Locale di Vibo. Sulla consorteria, la Corte d’Appello ribadisce in primo luogo, come il fenomeno del Locale di Vibo Valentia si palesi “unico, sebbene al suo interno varie famiglie Mancuso, Lo Bianco-Barba e successivamente il gruppo di Mantella e poi la ’ndrina dei Ranisi (Camillò-Pardea-Macrì) nata da una recente scissione dalla cosca Lo Bianco-Barba si contendono le zone di influenza. Pertanto, si è di fronte a gruppi dal carattere certamente ndranghetistico, sia perché così percepiti (unitariamente) dalla società civile, sia anche perché i singoli gruppi si riconoscono vicendevolmente nella consapevolezza di avere negli altri un rivale temibile con cui fare alleanze o scontri velati o anche vere e proprie guerre di ’ndrangheta”. E in tutto questo la ’ndrina Ranisi viene riconosciuta come “associazione mafiosa armata, che si impone con estorsioni sul territorio, anche in contrasto con altri gruppi, e ritenuta da questi alla pari”. Pentiti e attività tecniche investigative avevano “certificato lo storico radicamento della ’ndrina “Ranisi” in quella fetta di territorio, di cui ha via via ceduto il predominio in favore della cosca Lo Bianco – Barba, divenendone un gruppo ancillare, unitamente alla quale si fonderà nel 2012 in un “buon ordine”, senza che tuttavia vengano a risolversi le antiche rivalità tanto che già nel giro di pochi anni (2016 – 2017) riaffioreranno nuove spinte autonomistiche con la creazione di numerosi sottogruppi tutti accomunati dall’avversione verso i Lo Bianco”. Il germe che avrebbe dato la stura si fa risalire alla scissione operata da Andrea Mantella dalla casa madre all’inizio degli anni 2000. Quanto alla contestazione di associazione armata della Locale di Vibo,  nella quale confluiscono “unitariamente i Lo Bianco/Barba e i Ranisi”, si fa menzione non solo alle intercettazioni tra i sodali  ma anche ai sequestri di veri e propri arsenali, costituiti in gran parte anche da armi clandestine (a Filippo Di Miceli Michele Manco) e ai canali di approvvigionamento “nelle persone degli odierni imputati Luigi Vitrò e Lucio Belvedere”.

Incidenza della cosca sull’economia. “Rilevante”. In questi termini la Corte giudica l’incidenza del clan Lo Bianco-Barba nel tessuto economico cittadino. Un gruppo con “una particolare dedizione all’esercizio abusivo del credito, anche e soprattutto attraverso attività usurarie poste in essere soprattutto dai suoi esponenti”, come pure si fa riferimento l’investimento – risalente nel tempo – della cosca “nell’Hotel 501, circostanza pregnante e immotivatamente svalutata nell’atto di appello. Anzi proprio l’attività di usura, quale attività della cosca è proprio sintomo di reimpiego delle mafie storiche dei proventi illeciti nell’economia. L’incidenza sull’economia per la pluralità degli episodi richiamati non può dirsi dunque irrilevante, ma invece di grande valore economico”.

Locale di Zungri. Riconosciuti la sua esistenza e il vertice nella persona di Giuseppe Antonio Accorinti, detto “Peppone”. Al riguardo si fa riferimento sia l’ordinanza del Tdl sulla posizione di Nicolino Pantaleone Mazzeo (…una ben definita ‘ndrina Accorinti, quale autonoma realtà del panorama criminale vibonese e dante vita alla Locale di Zungri e ciò a dispetto dell’innegabile assenza di accertamenti giurisdizionali definitivi sul punto”), che della pletora di collaboratori di giustizia (Michele Iannello, Raffaele Moscato, Andrea Mantella, Bartolomeo Arena ed Emanuele Mancuso) la cui “la cui attendibilità è stata già positivamente valutata sia nella fase cautelare, che dal Gup nel corso del giudizio di cognizione di primo grado”. E proprio sui pentiti, in relazione all’esistenza della locale di Zungri a cui capo si pone, “in maniera indiscussa, Giuseppe Antonio Accorinti, appellato dai conversanti, nelle intercettazioni acquisite nell’ambito del processo, come “la Signora”, in modo da non doverne pronunciare esplicitamente il nome per evidenti motivi precauzionali”; la Corte piega che le loro dichiarazioni sono state rese “in modo del tutto indipendente e sono intervenute in fasi diverse delle investigazioni, sicché deve escludersi che vi possa essere stata una preordinata concertazione a fini calunniosi”; a ciò sai aggiunge “un vasto compendio intercettivo che funge da risconto ai resoconti degli stessi. Grazie ad esse “è stata accertata l’esistenza di una cassa comune della locale di Zungri, l’esistenza di una struttura di ‘ndrangheta operante all’interno della predetta Casa Circondariale che, nel periodo di carcerazione del predetto Accorinti, ossia nell’anno 2017, è risultata diretta proprio da lui, di varie attività estorsive della cosca, del capillare controllo del territorio e delle attività predatorie volte all’accaparramento di terreni e bestiame”.

La Locale di San Gregorio. L’esistenza della cosca Fiarè di San Gregorio d’Ippona, “promossa e diretta da Rosario Fiarè” e alleata di quella egemone dei Mancuso di Limbadi, è stata accertata in via definitiva nel processo “Rima” (sentenza 24.11.2011 della Corte di Appello di Catanzaro), che ha riconosciuto la responsabilità associativa di Saverio Razionale, di cui il nipote Gasparro Gregorio “Ruzzu” è venuto emergendo in  questa sede come braccio destro e luogotenente durante le sue assenze dalla Calabria. Non viene ritenuto dirimente che nei precedenti processi a carico delle cosche del Vibonese, e in particolare in “Rima”, non sia emersa la figura dell’imputato, né il fatto che in quella sede Razionale sia stato condannato in veste di mero partecipe e dando atto del suo allontanamento dal territorio calabrese, con spostamento a Roma del baricentro dei suoi affari, dopo l’attentato subito a metà degli anni ’90, perché quelle valutazioni “sono evidentemente superate dalle acquisizioni probatorie intervenute in questo processo, costituite da nuovi e rilevantissimi apporti collaborativi (primo fra tutti, quello di Mantella) e dagli esiti delle intercettazioni, pienamente idonee a sorreggere le nuove contestazioni, anche lumeggiando meglio i fatti già giudicati con riferimento ai precedenti segmenti temporali”.

Con specifico riferimento alla cosca di San Gregorio d’lppona, assumono poi rilievo, quanto all’aggravante dell’associazione armata il rinvenimento dell’arma clandestina in possesso di Alfredo Prestano, affiliato poi deceduto coinvolto con altri uomini di Saverio Razionale “nel sequestro a fini di estorsione di Pio Daniele Mizzau nonché nel tentativo della cosca di recuperare l’investimento di 3.200.000 euro nell’acquisto dell’hotel “Villa Eden ” di San Giovanni Rotondo”; e quanto al reimpiego dei proventi delittuosi, i giudici rilevano il “vasto sistema di intestazioni fittizie messo in piedi da Razionale, come pure la vicenda Mocambo (in cui è coinvolto proprio Gasparro) e il ruolo di Gregorio Giofrè, definito da Mantella “ministro dei lavori pubblici” delle cosche vibonesi

per il suo ruolo di gestore centralizzato delle “messe a posto” delle imprese committenti in favore dei vari gruppi federati, sovente consistente nell’imporre alle appaltatrici l’affidamento di subappalti e commesse alle imprese di riferimento delle cosche, con ciò alimentando il circuito del reinvestimento delle utilità derivanti dalle azioni delittuose”.

La Locale di Sant’Onofrio. Nell’ambito del processo “Uova del Drago” , nonostante lo stesso si fosse concluso con una sentenza di assoluzione in relazione alla contestazione associativa del clan Bonavota relativamente al periodo antecedente al maggio 2009, la Corte spiega che gli elementi ritenuti a suo tempo insufficienti oggi “risultano arricchiti di nuovi contributi, tutti relativi alla sussistenza della locale di Sant’ Onofrio nel periodo oggi in contestazione; basti citare, per esempio, le dichiarazioni dei collaboratori Andrea Mantella, Emanuele Mancuso, Vincenzo Marino, Raffaele Moscato, Giuseppe Giampà, le cui propalazioni sono state  riscontrate dal contenuto di numerose intercettazioni”.

La ’ndrina di Pizzo. Sulla sussistenza della ‘ndrina di Pizzo la Corte d’Appello non ha dubbi, ed anzi sottolinea che essa è unaarticolazione territoriale subordinata alla locale di Sant’Onofrio (al pari della ’ndrina di Filogaso), capeggiata da Salvatore Mazzotta, annoverando tra i sodali Luca Belsito e Onofrio D’Urzo, e che gli elementi su cui essa si fonda quella sono riassumibili nelle dichiarazioni dei collaboratori Raffaele Moscato e Andrea Mantella e quelle successive di Bartolomeo Arena sul ruolo di Mazzotta nel settore del traffico di sostanze stupefacenti. Non solo, nelle motivazioni si riportano anche le attività tecniche svolte dai carabinieri nei confronti degli indagati. E l’esistenza della ’ndrina emerge dalla conversazione intercettata tra l’imputato Luca Belsito e il nonno in cui i conversanti manifestano “l’aspirazione a formare una “locale” autonoma da quella madre di Sant’Onofrio; sul punto, va precisato che detto intendimento non esclude che vi fosse già una realtà criminale operante su Pizzo, solo che la stessa era di minor caratura e potenza rispetto a quella capeggiata dai Bonavota, per come chiaramente affermano gli stessi colloquianti”.

La ’ndrina di Maierato e Filogaso. Questa consorteria risulta, collegata alla locale di Sant’Onofrio, retta dai Bonavota, e ad esserne referente è Domenico Cracolici, con compiti prevalentemente legati al traffico di droga, ma comunque subalterno, sia al clan di Sant’Onofrio, che al boss Rocco Anello di Filadelfia. La Corte specifica che “la sussistenza della ‘ndrina dei Cracolici, che opera da lungo tempo sui territori di Filogaso e Maierato, è desunta dagli elementi ricavabili dall’informativa dei carabinieri del 26 luglio 2018. È inoltre asseverata in primo luogo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Bartolomeo Arena, Francesco Costantino, Andrea  Mantella e Giuseppe Giampà, che si riscontrano vicendevolmente e che sono state riprodotte anche nella sentenza impugnata, dalle quali si trae anche prova dell’inserimento di Cracolici Domenico nella citata consorteria. A riscontro delle suddette fonti dichiarative, per i cui contenuti si rimanda all’impugnata sentenza ed alla informativa dei carabinieri, vengono evidenziati anche stralci di alcune intercettazioni, che forniscono conferma dell’operatività della “famiglia” dei Cracolici, anche dopo l’eliminazione dei precedenti capicosca”. Inoltre dalle dichiarazioni di Giampà si rileva che Domenico Cracolici per vendicare la morte di padre e zio si fosse rivolto al primo – capo dell’omonimo clan di Lamezia – per chiedere aiuto per l’attuazione dei suoi propositi che, ove realizzati, avrebbero certamente avuto conseguenze sui delicati equilibri criminali; ed, infatti, Giampà aveva negato il suo appoggio. “La circostanza dimostra anche che la cosca Cracolici, dopo la uccisione dei fratelli Alfredo e Raffaele, era una ‘ndrina debole e, come tale, avrebbe potuto continuare ad operare criminalmente, solo sotto il controllo di altre cosche, i Bonavota e gli Anello, appunto”.

Vi è dunque “perfetta corrispondenza tra il descritto ruolo degli appartenenti alla ‘ndrina Cracolici

rispetto al capo di imputazione, anche per quel che riguarda il peculiare rapporto con il clan Bonavota. L’unica differenza è l’aver, il Gup, ritenuto non dimostrato il ruolo di organizzatore di Domenico Cracolici poiché, dai corposi atti di indagine, è emersa una posizione predominante del cugino dell’odierno imputato, Francesco Cracolici, soprattutto nella realizzazione di delitti fine non afferenti al traffico di stupefacenti, settore alla cui gestione è invece risultato preposto il prevenuto, così risultando, compiutamente riscontrate le dichiarazioni di Bartolomeo Arena”.

Il Quotidiano del Sud.
Rinascita Scott, l’Appello conferma: nel Vibonese c’è una ‘ndrangheta unitaria

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *