Anche le statue piangono: la boxe italiana scossa da Johnny Kogasso, e l’America chiama

Anche le statue piangono: la boxe italiana scossa da Johnny Kogasso, e l’America chiama

Tra tutti i modi per tornare sconvolti da una riunione di pugilato: possibile mai? Un ko fulminante, un verdetto scandaloso, un combattimento all’ultimo gong. E invece no: una statua che piange. Una statua che piange e non siamo a Lourdes, e non siamo a Trevignano. Possibile? Allianz Cloud, Milano, sabato 13 aprile. Cinque incontri, riunione della The Art Of Figthing (TAF). Di tutti i pugili saliti sul ring nessuno ha entusiasmato come Jonathan Kogasso detto “Mamba”, che in appena 2 minuti e 38 secondi ha ribaltato più volte sul tappeto Goran Babic e si è preso la cintura WBC Mediterraneo dei massimi leggeri. Ha rubato la scena a tutti.

L’ha rubata in 2:38 di velocità, colpo d’occhio, potenza. Un sottoclou al fulmicotone. Un bignami della sua boxe, tecnica e mani pesanti, quasi due metri di pugile che danzano al ritmo di un peso medio. È lui la statua: Kogasso da Kinshasa a Voghera con un volo sola andata, Kogasso che entusiasma e che a più di qualcuno ricorda il più grande di sempre, Kogasso che fa pensare a traguardi da anni irraggiungibili per i pugili italiani. “È l’unico in Italia che può ambire a palcoscenici internazionali”, dice convinto il suo maestro Enzo Gigliotti: il primo ad aver notato il talento, il primo ad aver indirizzato questa storia su una traiettoria precisa. E che grazie a Johnny è tornato a casa.

È quasi magia Johnny

Johnny perdeva tempo in mezzo alla strada. Gli amici, le prime sigarette, una canotta gialla dei Lakers col numero 24 sulle spalle. Maurizio, un amico – “un gran bel pugile, molto promettente” – ci perde dietro un’estate: “Vieni in palestra, vieni a fare boxe, vedrai che ti piacerà”. E Johnny niente, non la conosce nemmeno più di tanto la boxe. Quando era piccolo giocava a pallone nelle strade di Kinshasa: tutti i bambini come lui volevano essere Ronaldo, che ai Mondiali del 2002 in Korea del Sud si fece quel taglio di capelli assurdo, buzzcut. A lui il padre lo aveva proibito, tra l’altro era un generale dell’esercito e quindi non è che ci fosse più di tanto da discutere. La madre invece era una commerciante.

“Ho avuto un’infanzia dignitosa, non facile ma dignitosa. Le difficoltà non mancavano, c’erano periodi in cui il massimo che avevi era da mangiare. Quello non è mai mancato”. Jonnhy era l’ultimo di quattro figli. A preoccuparsi del volo, del visto e di tutti i documenti i documenti una zia che vive in Italia: i genitori volevano provare a dargli un futuro migliore. “L’impatto è stato piuttosto semplice, sono stato fortunato. Mi sono subito ambientato grazie allo sport”. Quello sport però non è il pugilato, almeno fino a quando non decide di dare una chance all’idea dell’amico.

Boxe Voghera

“Per me la boxe è un mezzo per conoscere me stesso. Ma lo è per tutti, non faccio distinzioni tra professionisti e gente comune che si allena. Io ero insicuro, ho acquisito molta autostima. Mi porto dietro nella vita di tutti i giorni la capacità di soffrire, di sacrificarmi, la dedizione che mi ha insegnato la boxe”. C’è un prima e un dopo la boxe nella sua vita. E in palestra conosce Livio Lucarno, storico maestro morto lo scorso dicembre a 81 anni dopo una lunga malattia. “Era come una seconda casa, toglieva i ragazzi dalla strada. Era un posto dove sentirsi accettati, accolti, dove sfogare le proprie paure”. Lucarno è morto lo scorso dicembre a pochi giorni dal Memorial Parisi.

 

 

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“L’ho incontrato che era già un po’ avanti con gli anni, nelle sue poche parole era racchiusa molta saggezza. Non era uno di quei maestri che parlava sempre: passava una volta e ti diceva una cosa, ‘usa più il jab’. Passava un’altra e te ne diceva un’altra, ‘non stare lì fermo sui colpi’. E tu sapevi di dover lavorare su quello, ti faceva sforzare a ragionare. Questa è la boxe”. A Kinshasa, il 30 ottobre del 1974, si tenne l’incontro di boxe forse più raccontato e tramandato tra letteratura e film, il “Rumble in the Jungle” tra Muhammad Alì e George Foreman voluto dal dittatore Mobutu Sese Seko. “I grandi lo ricordano, i giovani meno. È un’eredità che non è stata granché sfruttata in Congo. Kinshasa è piena di palestre, che poi non sono palestre. Qualche sacco appeso nei retro di un caseggiato e dei ragazzi che si allenano”. Johnny però la boxe l’ha incontrata lontano da dove Alì tornò a essere campione del mondo. Sembra quasi logico quando gli dicono che somiglia al più grande di tutti.

Il maestro torna a casa

Alla Boxe Voghera è in programma una riunione. Enzo Gigliotti è fuori da tempo: da pugile ha vinto il titolo italiano e quello intercontinentale, ha sfiorato per due volte il mondiale. Alla Boxe Voghera ci era entrato che aveva dieci anni, alla Boxe Voghera ci era cresciuto: allievo di Livio Lucarno e amico e compagno di allenamenti di Giovanni “Flash” Parisi, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul ’88 e campione mondiale della WBO nei pesi leggeri. Una vita intera nella boxe. “Ce l’avevo con tutto il mondo del pugilato, io sapevo di essere il più forte ma non sono riuscito a diventare campione del mondo. Dovevo andare a lavorare in cantiere, è stato tutto duro”.

 

 

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Racconta che Parisi progettava di fondare un team. “Lui avrebbe fatto il promoter, io l’allenatore della scuderia”. Prima del frontale, la BMW M6 contro un furgone sulla tangenziale: Parisi è morto il 25 marzo del 2009, aveva 41 anni. E Gigliotti non allena nemmeno, è completamente fuori dalla boxe quel pomeriggio. Quella volta però, alla storica palestra di Voghera, nota questo ragazzo. “Mi ha catturato subito la sua velocità, ma non aveva padronanza nelle gambe, non aveva concezione di come si schiva e si rientra. Ho pensato: se dovessi allenare, mi piacerebbe allenare lui”. Quando lo incontra, in mezzo alla strada, glielo dice dritto in faccia: “Se vuoi fare il salto di qualità o vieni con me o devi andare in Inghilterra”. Kogasso lo segue fino al suo garage. “Non mi volevo nemmeno tesserare, dopo tanti anni di boxe – confessa Gigliotti – ma non potevo stare all’angolo e non era neanche giusto nei confronti di chi ha fatto tutto il percorso”. Johnny nel garage trova un sacco, qualche pesetto e un paio di guantoni.

Johnny Shuffle

“Anche in quel garage, estate e inverno, è stata un’esperienza, un’opportunità. Posso dire – ricorda Kogasso – di aver imparato che nella vita dipende tutto da come vedi le cose. Non serve chissà cosa per lavorare e inseguire i propri obiettivi. Ancora non abbiamo fatto niente, ma ce la stiamo mettendo tutta”. Kogasso si allena con Gigliotti da otto anni. Ha lavorato come operaio metalmeccanico, da manovale sui cantieri, nel personale della sicurezza nei locali. “In fabbrica da lunedì a venerdì e il weekend nei locali, mi sono dato da fare”. Non fa più quella vita, da un po’ lavora nella biblioteca universitaria di Pavia. Ha un figlio di un anno e mezzo, lavora anche per aiutare la sua famiglia in Congo.

A questo punto della sua carriera ha un record di 11 vittorie, otto per ko. Zero sconfitte. Si porta dietro il rimpianto di non aver partecipato alle Olimpiadi di Tokyo: i vertici federali della Repubblica Democratica del Congo hanno preferito atleti residenti in patria, non è stato preso in considerazione per il torneo di qualificazione in Senegal. “Ho perso quattro anni per preparare i Giochi e tre anni di professionismo. Me ne sono fatto una ragione”. Ha scelto di farsi chiamare “Mamba”, come il suo idolo, Kobe Bryant.

Goran Babic, serbo svedese, era campione WBC Mediterraneo dei Cruiser. “Gli avevo chiesto di farmi tre round alla Alì – racconta Gigliotti – danzare e jab, danzare e jab, innervosirlo e cominciare a caricare dopo la terza ripresa”. Il maestro ha un metodo tutto suo per preparare il match: accende la sua televisione, fa partire gli incontri, e ci boxa lui. “Babic però l’ha aggredito subito e Johnny ha risposto, ha cominciato a picchiare come se fosse la quinta ripresa”. Ko, è finita al primo round. Un tempismo che ha stupito anche il suo maestro.

 

2:38 in cui si è visto tutto quello che la gente vuole vedere nel pugilato: coraggio, temperamento, tecnica, potenza, varietà di colpi. Il pacchetto completo. “Johnny ha ancora tanto da far vedere, a livello di fraseggio pugilistico non c’è nessuno come lui in Italia”. Tornerà sul ring l’8 giugno a Monza, un’altra riunione TAF. “Abbiamo chiesto un avversario tosto – dice Gigliotti – , all’altezza. Ho bisogno di alzare l’asticella e vedere qual è la sua effettiva forza in questo momento. I colpi prima o poi arrivano e devi essere capace di portarli via se vuoi combattere a certi livelli”.

L’America chiama

Kogasso non ha avuto finora l’opportunità di combattere per il titolo italiano: a differenza di come succede di solito, su questo il maestro è più scatenato del suo allievo. Gigliotti non le manda a dire. A Claudio “Red Bull” Squeo, che è appena diventato campione Europeo IBF dei Cruiser dopo aver lasciato la cintura italiana: “Lo rincorriamo da due anni, ma lui non può incontrare Johnny, Johnny è troppo superiore”. E a Roberto Lizzi, cugino di Dario Morello: “Come fa a dire che noi lo evitiamo, quando lui ha fatto sei match e sei seconda serie, e il titolo italiano non lo può fare da seconda serie?”. Kogasso oggi non potrebbe combattere per il titolo europeo per via della cittadinanza italiana.

“La prima domanda è stata rifiutata e non mi venne comunicato. Ho atteso anni inerme, inutilmente. Sono ripartito da capo, speriamo in un intervento che possa accelerare la pratica”. Senza cittadinanza italiana Johnny deve rinnovare sempre il permesso di soggiorno e va incontro a problemi di visto quando deve viaggiare all’estero. Ha fatto tutte le scuole fino al diploma, ha sempre lavorato. “Non ci vedo razzismo, credo sia più una questione burocratica. Conosco gente arrivata dopo di me che ha ottenuto la cittadinanza, i miei zii ce l’hanno. Per me l’Italia non è un Paese razzista, ma posso parlare solo a titolo personale. Ho parenti e amici all’estero che mi raccontano di situazioni più dure. Ho avuto degli episodi di discriminazione, il deficiente lo incontri sempre, ma per me è più il positivo che ho ottenuto da questo Paese che il negativo”.

Johnny Kogasso è molto severo con se stesso, vuole diventare il più bravo, il più forte di tutti. Dagli Stati Uniti qualche offerta è già arrivata. “Non mi piace parlarne. Fa piacere, è un interessamento importante, ma dobbiamo continuare come abbiamo fatto fino a oggi. Non svenderci, fare i passi giusti. Non avere fretta”. Anche Alessandro Duran, ex campione mondiale ed eroe della boxe degli anni ’80 e ’90, commentatore per DAZN, a bordo ring gli ha detto che potrebbe portare la boxe italiana ai livelli tempi migliori. E l’Allianz Cloud ripeteva e scandiva il nome del pugile che li aveva sconvolti. “Mi hanno fatto ripercorrere in 20 secondi tutta la mia vita. Sembra un po’ esagerato ma è così. La vittoria, il pubblico che acclama il mio nome, i miei amici, la mia famiglia. Ho pensato a me da bambino, alla mia storia, ai miei dubbi, alle mie difficoltà, alle mie insicurezze. Non sono arrivato da nessuna parte ma ci sto provando, ci sto credendo. È una partenza, uno slancio per obiettivi sempre più grandi. Mi sono lasciato andare e poi subito dopo ho detto, ok, ci sta, torniamo a essere il solito guerriero”. Era sudore, il sudore di un pugile. Non erano mica lacrime quelle, ma va. Avete mica mai visto una statua piangere?

FOTO DA YOUTUBE

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