Perché il test di personalità alle toghe è uno strumento sbagliato

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Test psicologici: sì o no? Ma in ogni caso, dove è l’Ordine degli Psicologi? Perché la decisione sul tipo di test, la somministrazione, l’interpretazione, la restituzione del risultato, è materia che appartiene agli specialisti.

E appunto, perché l’Ordine degli Psicologi non interviene in un settore che è sua specifica competenza? Forse perché in Italia la ‘testistica’ non gode di una buona scuola, è ristretta nei corsi di laurea ad un solo insegnamento e quanto alla scelta degli strumenti da somministrare, si fa ricorso a prodotti soprattutto anglosassoni.

In senso tecnico, si dovrebbe distinguere tra diagnosi psicoattitudinale e diagnosi di personalità. La prima riguarda l’accertamento di specifiche capacità di un soggetto relativamente ad un ambito scolastico o lavorativo.

Nelle scuole a volte, al termine della terza media, si possono somministrare dei test per capire se uno studente è più portato verso una prosecuzione degli studi tecnica, umanistica o scientifica. Un buon insegnante, ma anche un genitore attento, di per sé potrebbe non averne bisogno. Ma si sa, il test è ‘scientifico’. A patto di saperlo somministrare, interpretare, restituire. E non è banale.

In ambito psicodiagnostico, tra i molti tipi di test, la proposta di utilizzare l’Mppi colloca la scelta sul versante dei test di personalità. E tra questi (sono tantissimi), l’Mppi è un questionario connesso a un inventario self-report riferito a criteri esterni.

Cioè fa parte di quei questionari che cercano di individuare sintomi o descrizioni di comportamenti indicativi di certe caratteristiche di personalità. Dove la parola chiave è: ‘indicativi’. Non sono ‘predittivi’, non prevedono il futuro comportamento di un individuo.

Come spiega Giuseppe Crea, docente di Tecniche psicodiagnostiche alla Pontificia Università Salesiana – “i recenti studi su normalità e psicopatologia hanno evidenziato che non esistono rigidi confini tra diversi stadi psicopatologici, in particolare se individuati facendo riferimento alle tassonomie tradizionali della psichiatria. Pertanto lo scopo di discriminare tra stati di psicopatologia risulta dimensionato”.

E allora, come comprende chiunque appena si addentra in un settore molto specialistico – qui non diciamo niente sull’analisi fattoriale e multivariata da padroneggiare alla perfezione per interpretare i dati in maniera accurata – un utilizzo più opportuno e sensato dei test dovrebbe fare riferimento a un contesto diverso da quello prefigurato finora.

Non un’applicazione generalizzata ma un’applicazione all’interno di una unica psicodiagnosi progettuale. Il cui fine sia dialogico e promozionale, diceva nel 1999 Michele Pellerey, un altro capofila del mondo scientifico dell’Università Salesiana (la prima in Italia ad avere un Istituto di Psicologia già negli anni Settanta).

Dialogico, perché tiene conto del rapporto aperto tra il soggetto e l’ambiente; promozionale, perché ogni diagnosi deve servire a promuovere una vita piena di senso, facilitando nel singolo modalità di adattamento sia migliorative, sia orientative. La psicodiagnosi si esprime al meglio quando è al servizio dell’osservazione clinica, in funzione educativa, puntando al processo di crescita della persona e non alla sua discriminazione.

Esiste poi un altro aspetto ostativo all’introduzione di una italiana repubblica dei test. Premesso che in un ottica educativa generale che comprenda tutti gli ambiti della società, l’uso della valutazione diagnostica sarebbe auspicabile, il ricorso a dei test di matrice anglosassone – sebbene con i relativi adattamenti – comporta uno sbilanciamento.

Si tratta infatti di esaminare il singolo, sconnesso dal suo collegamento con il contesto sociale. Un esempio servirà a chiarire meglio. Quando si applica il Myers-Briggs, il test che deriva dalla teoria dei Tipi Psicologici di Carl Gustav Jung, in ambito anglosassone è possibile comparare un sotto-settore con la popolazione generale.

Perché nel mondo anglosassone sono stati effettuati studi che consentono di sapere quanta parte di popolazione generale appartiene – semplifico – alla categoria Introversione e quanta alla categoria Estroversione.

Così se effettuo il test su un gruppo omogeneo – che so: il clero cattolico, piuttosto che gli insegnanti o i magistrati – posso poi procedere ad una comparazione del risultato con la popolazione generale, traendo indicazioni operative importanti. E non è poco. Perché quella dei test è una scienza.

E sebbene sia davvero auspicabile una migliore conoscenza e uso di questi complessi strumenti (non entriamo poi nella galassia dei test proiettivi), ci vorrebbe un Ordine degli Psicologi capace di intervenire con competenza nel dibattito. Ma forse anche l’Ordine ha una scarsa considerazione dello strumento testistico, così prepotentemente tornato alla ribalta.

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