Il lavoro in carcere non può essere lavoro forzato: ministero condannato

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Nel carcere di Ancona-Montacuto a un detenuto disabile al 100% era stato assegnato un altro detenuto quale assistente alla persona per coricarsi e alzarsi dal letto, lavarsi, cucinare e consumare i pasti e, più in generale, per fornirgli aiuto fisico, attività svolta per 16 mesi tra il 2021 e il 2022 e retribuita pari mediamente a 3 ore di lavoro al giorno ancorché il servizio si protraesse oltre tale orario, sovente anche la notte.

Nonostante le rimostranze per l’ingiusto trattamento retributivo, l’Amministrazione penitenziaria faceva orecchie da mercante. Spazientito, il detenuto-lavoratore in prossimità del fine pena si era rivolto al proprio legale, chi vi scrive, al fine di agire giudizialmente per ottenere la giusta retribuzione per le ore effettivamente lavorate.

Con una sentenza coraggiosa, come pure ne sono intervenute altre negli ultimi tempi da parte dei tribunali del lavoro nazionali, il Tribunale di Roma, Sezione lavoro (territorialmente competente per le cause contro il Ministero), dott.ssa De Renzis, con Sent. n. 3573/2024 del 22 marzo scorso, ha contribuito a porre una cesura a questo diffuso malcostume, a tacer di illiceità, e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di euro 12.636 a integrazione della retribuzione per le ore lavorate e non pagate oltre alle ferie maturate e agli interessi nonché al pagamento delle spese di lite pari a 3.223 euro, motivando la decisione: “va posto in rilievo che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, ma va remunerato secondo quanto previsto dalla legge n. 354 del 1975, contenente Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (articoli 20 e 22). Va, pertanto, riconosciuto il diritto del ricorrente al pagamento delle differenze retributive per le ore effettivamente lavorate”.

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2 ottobre 2018 (D.lgs. 124/2018) ha interessato anche il lavoro carcerario in tutti i suoi aspetti. All’art. 2 si enuncia che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale.

Viene fissato il principio per cui il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, non è obbligatorio ed è remunerato; l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale, ciò anche in ossequio all’articolo 1 della Costituzione; la remunerazione è quella prevista dagli ordinari contratti collettivi e accordi sindacali sebbene ridotta di un terzo.

Tra le altre modalità, è previsto il lavoro intramurario, che è quasi sempre domestico alle dipendenze dell’amministrazione e consiste nello svolgimento di attività necessarie alla gestione materiale degli istituti: barberia, cucina, lavanderia, distribuzione dei pasti, assistenza alla persona per i detenuti disabili e così via. Ci sono poi le mansioni classiche che appartengono alla MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati): idraulici, imbianchini, muratori.

Il lavoro intramurario è molto appetibile dai detenuti, che riescono così a incamerare denaro per rendersi la vita più agevole durante la detenzione, destinare qualche somma ai familiari o mettere da parte piccoli risparmi da utilizzare dopo il fine pena; esso si colloca nell’ambito delle risorse trattamentali al fine di responsabilizzare il detenuto e contribuire alla sua risocializzazione, ciò che costituisce la finalità della pena.

Per questo motivo la legge correda il più possibile di diritti il lavoro penitenziario, in specie quello intramurario, al precipuo scopo di affermare la dignità della persona e del lavoro, diritto non scalfito dallo stato di detenzione.

Allora, tra gli elementi rilevanti affinché il lavoro risulti dignitoso, emerge in primis la giusta retribuzione delle prestazioni effettuate. Dopo questo ulteriore inequivocabile arresto della giurisprudenza, confidiamo tutti in un maggior rispetto della legge da parte dell’Amministrazione penitenziaria in ossequio alle regole che lo Stato stesso si è dato.

*Avvocato del foro di Macerata

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